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L’ironia di Piero Ledda nel suo scialpinismo raccontato per Luca Mazzoleni

L’ironia di Piero Ledda nel suo scialpinismo raccontato per Luca Mazzoleni
16 Gennaio 2017

Un racconto da leggere tutto d’un fiato quello riguardo l’iniziazione allo sci di pista prima, e allo scialpinismo poi, di Piero Ledda. Questo brano è apparso nella prima edizione de “La montagna incantata”, la guida di itinerari scialpinistici in Appennino Centrale di Luca Mazzoleni. Con piacere lo pubblichiamo oggi sul nostro blog.

Dello sci e dello scialpinismo, Piero Ledda

In seguito a certi miei studi molto approfonditi sono arrivato alla conclusione che il mondo degli sciatori può suddividersi in due grandi gruppi: “quelli che hanno imparato a sciare da piccoli”, e “quelli che hanno imparato a sciare da grandi”. Per individuare i membri di ciascuna categoria è sufficiente studiare attentamente una pista di sci (purché sia aperta). I primi indossano sempre tute eleganti e sciano in modo impeccabile, hanno spesso lineamenti del viso più regolari dei secondi, sfoggiano abbronzature perfette e denti bianchissimi. I secondi invece appaiono ricoperti di neve dalla testa i piedi, urlano tutto il tempo per farsi coraggio e calzano spesso un solo sci (l’altro in genere sta ultimando la pista senza di loro). A questa suddivisione taluni studiosi ne preferiscono un’altra assai più netta, tra “quelli che sanno sciare” e “quelli che no”. Ma forse si tratta delle mie medesime categorie sotto forma diversa. La cosa più sorprendente è stata invece scoprire fino a che punto l’antinomia tra “sciatori nati” e “sciatori acquisiti” ricalchi fedelmente altre tipiche antinomie della società moderna, come ad esempio quella tra “figli di papà” e “figli di nullatenente”; “quelli che hanno la casa in montagna” e “quelli che pagano l’affitto in città”; “quelli che sanno bene l’inglese”, e “quelli che non sanno neppure l’italiano”; “quelli a cui i genitori comprano la macchina”, e “quelli che invece distruggono quella dei genitori” e così via per decine di possibili esempi.
Ahimé devo confessare che io appartengo sin dalla nascita al secondo gruppo; infatti ad un certo punto della mia vita, in età già matura, ho deciso che dovevo assolutamente imparare a sciare.
La prima volta che ho messo piede su una pista innevata…l’ultimo ricordo è un paio di sci che schizzavano verso il cielo, mentre io mi conficcavo nella neve per oltre un metro. Il secondo episodio fu quasi una replica del primo, però questa volta furono gli sci a piantarsi in profondità come pali dell’Enel, mentre io venivo proiettato in aria come un uomo-cannone. Per fortuna quel giorno avevo già pronto un piano d’azione per migliorare il mio stile: dovevo semplicemente imitare gli sciatori più bravi. Di questi ne vedevo passare a decine, abbronzati, eleganti e velocissimi, che ridevano gaiamente tra loro e disegnavano curve giottesche sulla neve. Allora anch’io mi misi a ridere in quel modo irresistibile e a dimenare il didietro proprio come loro…ma per il resto non riuscii a spostarmi di mezzo centimetro. Avevo troppa paura della pendenza: infatti si trattava di una pista “rossa”.
Il giorno dopo decisi di rompere il salvadanaio e di iscrivermi ad una scuola di sci; però “iscrizione” non è il termine più calzante. Sarebbe più giusto parlare di “arruolamento”. Infatti fui presentato a Karl Heinz, un gigantesco maestro con biondi capelli a spazzola, tanto che per poco non gli feci il present-arm con uno sci. Poi venni a sapere che suo nonno era caduto nella Prima Guerra Mondiale e lui ne reputava responsabili tutti gli italiani con i capelli scuri. Così aveva deciso di fare il maestro di sci per “fargliela pagare”.
Da quel giorno cominciai un durissimo allenamento punitivo. La prima lezione fu dedicata allo “spazzaneve”.
“Tefi fara exactamente cozì…” mi diceva Heinz con quel suo dolce accento. Allora si collocava alle mie spalle e cominciava a divaricarmi le code degli sci finché non mi convergevano le ginocchia al centro. In questo modo riproducevo quella tipica figura di bassorilievo egizio nota come: “l’Idiota di Tebe”.
“Zei pronto?” mi chiedeva Heinz premuroso. A questo punto mi dava una “spintarella” come se volesse far partire un’auto in panne e io allora gridavo tutto contento: “Yuhuuu!”. Un attimo dopo m’abbattevo sulla neve come un ponte levatoio e ci lasciavo il calco perfetto della mia perplessità. Però né io né Heinz eravamo tipi da arrenderci.
Il mio maestro mi mostrò quello che lui intendeva per “spazzaneve”… poco dopo lo vidi sparire lontano tra due prodigiose “fontane” di neve sparata violentemente in aria. Io allora provai a imitarlo, sebbene sapessi che nessun essere umano può competere con un mezzo dell’ANAS. Il primo tentativo si concluse dopo circa 15 centimetri direttamente contro un pino (…no, era Heinz). Per il secondo tentativo impostai subito correttamente gli sci a “V”, ma un attimo dopo erano già una “X”!…dopodiché riprodussi tutte le lettere dell’alfabeto fenicio in soli 6 metri, finché qualcuno sospettò un attacco epilettico. Per il terzo tentativo scelsi un angolo deserto e inospitale della pista perché non volevo testimoni; invece mi notò un’anziana signora da una terrazza d’hotel. La poverina ebbe un violento attacco di riso isterico con grave insufficienza respiratoria, e mezz’ora dopo stava ancora ridendo in quel modo scriteriato da dentro l’ambulanza. Se non fosse stata sedata sarebbe certamente morta…tra le risate generali (perché nel frattempo aveva contagiato anche i portantini). Così trascorsi i due giorni successivi tra terribili fallimenti e paurosi disastri; ma all’alba del terzo dai miei sci all’improvviso si levò un rumore nuovo, simile a quello di una nave che si disincaglia da una secca. In quel preciso istante cominciai lentamente a smottare verso valle: stavo sciando! Per tutto il giorno non feci altro che “sciare” su e giù per quella pista producendo il più terrificante attrito sulla Terra dopo quello della Faglia di Los Angeles, e così alla fine divenni assolutamente padrone della tecnica. Intanto però non era rimasta più traccia di neve; era tutta ammucchiata a fondo-pista contro la casetta dell’inserviente (il quale ora gridava che voleva uscire). Heinz allora cominciò ad avere finalmente una certa stima di me, anche se non ero biondo. E così mi comunicò che potevo passare alla tecnica “a sci uniti”.

Ora però non mi sembra il caso di descrivere tutte le fasi di questo nuovo apprendimento: infatti questo scritto potrebbe capitare tra le mani di un bambino. Mi limiterò solo ad avvisare chiunque voglia imparare a sciare…a non farlo per nessun motivo, perché a mio parere si tratta di una pratica profondamente “contro-natura” non meno della Sodomia. Infatti per sciare “bene” bisogna sporgersi decisamente verso il vuoto, quando in realtà tutto indurrebbe a ritrarsi in dietro; poi “caricare il peso” sulla punta dello sci, mentre verrebbe spontaneo “sedersi” sulla coda in preda al terrore; infine guardare fisso verso il fondo-valle, invece che scrutare con raccapriccio i propri sci intrecciati. Per fortuna ero sotto la guida di un grande maestro: Heinz, il quale a forza di urli, punizioni, rappresaglie, alla fine riuscì a inculcarmi la disciplina e i rudimenti dell’Arte. Però mentre gli altri sciatori disegnavano eleganti serpentine sul manto niveo, a me venivano solo una sorta di orribili svastiche costellate di grandi buche piene d’acqua.
Ciononostante, ormai “sapevo sciare”.
Da quel momento in poi il mio unico desiderio era di migliorare costantemente fino a raggiungere il livello di un “figlio di papà”. Così ogni anno dedicavo regolarmente un’intera settimana a sciare tutti i giorni dal mattino alla sera. Ma allo scoccare della quinta settimana bianca successe che…non ne potevo proprio più!
Cosa mi stava capitando? Nulla di grave. Ero semplicemente stufo di andare su e giù per una pista come un demente; di scottarmi la lingua con quei maledetti “vin brulè” e “cioccolate calde”; di rischiare d’essere evirato dai micidiali ski-lift a velocità variabile; d’essere trucidato dai ragazzini di uno sci-club lanciati a 100 all’ora; d’essere decapitato da uno snow-board fuori controllo con sopra un giovinastro a brache calate… . Insomma dopo matura riflessione giunsi alla conclusione che la “settimana bianca” è uno di quei flagelli con cui si accelera la corruzione di un popolo, e che certamente all’origine di essa è il Diavolo in persona, il quale sicuramente gestisce un albergo e un noleggio di sci.
Però non per questo cessavo di bruciare di giusto entusiasmo per la neve e la discesa, e così cominciai a interessarmi timidamente allo “scialpinismo”; una disciplina di cui avevo spesso sentito parlare nei telegiornali.
Dei miei primi approcci allo scialpinismo devo però dire che non ricordo quasi nulla. Tuttavia il mio analista sostiene che prima o poi comincerò a ricordare qualcosa (e quello sarà il momento di prendere certe pasticche). In ogni caso conservo nitide visioni della fase in cui, dopo l’ultimo gesso, mi impegnai a fondo per acquisire una migliore padronanza del “fuori-pista”. Stagione dopo stagione cominciai così a collezionare un numero sempre crescente di gite sulle principali montagne del Lazio e dell’Abruzzo e oggi posso tranquillamente annoverarmi tra i migliori scialpinisti, perlomeno del mio condominio.
Ho dunque i titoli per pronunciare qualche parola definitiva in quella che tuttora è una materia poco esplorata.

Lo scialpinismo in realtà è un’invenzione vecchia di molte migliaia di anni.
In quell’epoca i biondi cacciatori del Nord Europa avevano più volte osservato che correre o camminare nella neve alta era estremamente più faticoso per un bipede che per un quadrupede. Cominciarono dunque a pensare ad un modo più efficace per tener dietro alla selvaggina… e molti furono visti correre a quattro zampe con la lingua penzoloni sulle tracce di renne e cervi, ma al momento di mettere mano all’arco poteva accadere che si tirassero una freccia sul piede o che si dessero l’arco sui denti: le mani erano completamente anchilosate dal freddo. Allora il più intelligente tra loro inventò un nuovo sistema: fece scavare grandi buche nel terreno che poi venivano dissimulate astutamente con rami e foglie. Alla prima nevicata codeste trappole diventavano invisibili all’occhio più attento e i cacciatori si sfregavano le mani tutti contenti in attesa della prima preda. Ma poi inspiegabilmente nei villaggi cominciò a osservarsi uno strano spopolamento: infatti quasi tutti gli abitanti erano finiti in quelle buche diaboliche e ora gridavano aiuto a gran voce (ma pare che l’Inventore si ostinasse a sostenere che “erano cervi”).
Venne così il giorno in cui un geniale cacciatore di nome Amundbjorgensenberg (che in italiano significa: Gino) fece una grande scoperta. Il vento aveva abbattuto alcuni tronchi d’abete sulla neve e lui cominciò a gigioneggiare saltellando da uno all’altro sovrappensiero. Con sua grande sorpresa s’accorse che non sprofondava più fino all’inguine nelle neve. Allora si legò due tronchi ai piedi e gli riuscì di muovere alcuni passi in tondo; ma gli pareva di trascinare il peso di un grosso mammut morto. Quindi ripulì ben bene i tronchi con la sua scure bipenne e li piallò fino alla dimensione di una tavola. Poi volle provarli su un pendio fitto di alberi.
Dopo i primi 100 metri Gino sfiorava la velocità di una valanga di primavera e aveva già “raccolto” un’enorme fascina di rami spezzati. Dopo altri 300 piombò sulla piazza del villaggio come il dio Thor e proseguì oltre fino ad un lago ghiacciato che mandò in frantumi come il vetro di una finestra. Quello fu il prototipo dello scialpinismo.
Da quei tempi remoti l’attrezzatura scialpinistica ha subito una profonda evoluzione: essa oggi consiste in un paio di confortevoli scarponi, altrettante pelli di foca adesive e due corti sci molto leggeri con cui è possibile salire e scendere lungo pendii innevati. Però a mio parere il dato essenziale non risiede nell’aspetto tecnico, bensì in quello più genuinamente “umano”. Per proseguire in questa indagine è dunque necessario studiare dal vivo uno scialpinista.

In teoria per vederne uno a me sarebbe sufficiente sbirciare in uno specchio; ma il più delle volte preferisco spiarne uno che sappia sciare.
Ad un esame sommario questa creatura appare simile sotto molti aspetti ad un alpinista. Infatti sembra al pari di lui attanagliato dalla stessa cocente bramosia di “assurgere alla cima dei monti e di contemplare l’Infinito”…così almeno lui dice. Poi però accade molto spesso che, una volta accanto alla croce di vetta, non abbia occhi per null’altro che per i propri sci. In parte ciò è spiegabile con un naturale lieve offuscamento delle facoltà psichiche dovuto all’enorme fatica della salita; in parte con l’insana smania che affligge ogni vero scialpinista di gettarsi a capofitto sul manto nevoso zig-zagando come una zeta di Zorro e urlando come un Apache. Nello scialpinismo parrebbe dunque di distinguere due anime opposte: da una parte quella voluttà tormentosa della fatica e del sacrificio che spinge gli scialpinisti ad alzarsi come monaci ad orari antelucani, a chiudersi i piedi in scarponi che sembrano bare, a caricarsi le spalle con zaini a forma di torre, e ad annaspare come paperi in un mare di neve instabile; dall’altra, quell’ebbrezza pericolosa della discesa che può trasformare la persona più mite in una specie di teppista d’alta quota. Non è raro infatti vederne molti sfrecciare sui propri sci come a bordo di una Maserati, tagliando il pendio come fosse una torta, sgommando e spigolando come “bulli” di periferia.
In genere il profano resta poi molto colpito quando scopre che il calvario di 5 o 6 ore di marcia in salita nella neve fonda viene bruciato in non più di 20 minuti di rapida discesa. Ma, a sentire uno scialpinista, varrebbero qui le stesse argomentazioni dell’alpinismo: “la fatica e il sudore profusi nell’ardua salita rappresentano la doverosa iniziazione per il completo dominio sulla propria animalità”… il guaio è che poi questa riprende il totale sopravvento in discesa. È però difficile negare quella sensazione di sublime libertà e leggerezza che si gode a navigare senza peso su immensi campi di neve alla velocità di un motoscafo. Da questo punto di vista si può affermare che lo scialpinismo è tra le tutte discipline di montagna, quella più autenticamente “libera”. Infatti nello sci fuori-pista non esiste alcun reale dispositivo di sicurezza che possa intervenire in modo automatico a porre riparo all’errore umano o all’accidente del caso; in esso tutto è affidato alla forza, all’esperienza, al buon senso dell’uomo (… questo forse spiega le non trascurabili statistiche di incidenti). Fatto sta che l’esperto scialpinista che riesce a scampare alle sue prime 100 gite, quasi naturalmente assume quell’aria fascinosa di vecchio lupo di montagna che sa valutare la meteorologia, la consistenza del manto nevoso e la probabilità di un distacco valangoso solo annusando l’aria o assaggiando la neve. Infatti l’unico vero grande nemico dello scialpinismo è e resterà sempre la valanga, e ogni scialpinista ne è ossessionato così come il comandante Achab lo era da Moby Dick. A quell’odioso cetaceo la valanga può essere associata, oltre che per il colore, per l’uguale bizzarria e sadica malvagità che ne rende talvolta imprevedibile il comportamento; ma molto più spesso il suo distacco appare invece prevedibilissimo e addirittura scontato, nel qual caso la causa di molte slavine è da ricercarsi proprio in quell’anima da “bullo” sopita in ogni scialpinista.
Ma tralasciando tali spiacevolezze, vorrei ora concludere con un breve appello. Mi rivolgo al povero sciatore pistaiolo che conosce solo l’impianto, lo scodinzolo e la pista spelacchiata, e vorrei esortarlo a emendarsi una volta per tutte dall’Errore e a riscattare la sua vita sprecata. Io stesso un tempo ero come lui: quasi lobotomizzato da quel continuo salire e scendere senza scopo; ora però sono uno Scialpinista…e ho persino molto più successo con le ragazze.
Il passo successivo è quello di acquistare questa guida.

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