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“Al diavolo gli sci del Terzo Reich”, parola di Marco Dell’Omo

“Al diavolo gli sci del Terzo Reich”, parola di Marco Dell’Omo
11 Gennaio 2017

Luca Mazzoleni ne La Montagna Incantata, la prima edizione della guida Scialpinismo in Appennino centrale, ha raccolto alcuni contributi narrativi sul tema. Ecco quello di Marco Dell’Omo, giornalista, scrittore e scialpinista per diletto

Gli sci del Terzo Reich

In un corridoio della casa di mio padre, a Montereale, ci sono un paio di vecchi sci appesi alla parete. Hanno lamine arrugginite, attacchi modello Kandhar, con la leva anteriore da chiudere verso il basso una volta che lo scarpone sia inserito nella sua sede. Uno dei due ha una profonda scheggiatura sul bordo esterno. La forma è ampia, rotonda, solida. Ci si immagina che siano stati ricavati, chissà quando, da un’unica tavola di betulla, in qualche lontana fabbrica del Nord Europa. I bastoncini hanno la rondella di bambù, collegata all’asta da piccole strisce di cuoio.

Con altri venti paia di sci erano stati abbandonati dai tedeschi in fuga verso nord, nel maggio del 1944: un camion di materiale militare era stato scaricato dai soldati della Weermacht nella piazza del borgo di Paganica, una piccola frazione di Montereale, per alleggerire la ritirata. Nel giro di un paio d’ore la catasta era scomparsa, e quasi ogni ragazzo del paese aveva il suo paio di sci nuovi. Erano sci da alpini, e dunque dipinti di bianco: i tedeschi li avevano usati per pattugliare le montagne dell’Alta valle dell’Aterno, nel tentativo di stanare i partigiani e i prigionieri di guerra che si nascondevano nei casolari. Ma dall’inverno del 1945, cambiarono destinazione, diventando gli strumenti del divertimento invernale di mio padre e dei suoi amici.

Montereale è in cima ad un colle che guarda il fianco occidentale del Gran Sasso. In quegli anni, tra dicembre e gennaio scendeva talmente tanta neve che a volte arrivava a lambire le finestre del primo piano. Con gli sci dei tedeschi, i ragazzini del paese passavano pomeriggi interi a ruzzolare sui pendii che scendevano giù al piano. La domenica, poi, i più grandi andavano a Campo Imperatore, salendo con la funivia che aveva fatto costruire Mussolini. Si andava sci in spalla fino al rifugio Duca degli Abruzzi e si riscendeva fuori pista, con il lungo percorso dei Tre Valloni.

Fu proprio durante una di quelle discese che gli sci di mio padre si scheggiarono: colpa di alcune rocce sporgenti, nella strozzatura a metà discesa.
Anni dopo, nel ripostiglio della casa di Montereale, un campo delle meraviglie dove da bambino passavo lunghi pomeriggi a fantasticare sulle decine di oggetti bizzarri che vi si trovavano, ripescai i due cimeli: non più bianchi, ma ormai di un caldo color miele. Mio padre me ne parlò, romanzò con qualche iperbole il suo passato di sciatore e mi indicò l’insulto subito dal legno nel budello dei Tre Valloni. Volli provare a calzare anch’io quei due pesanti reperti.

Era caduta molta neve in paese (come durante la guerra, dicevano gli anziani). Le strade erano tutte imbiancate, e i pendii erano talmente candidi che la notte riflettevano la luce delle stelle. Scelsi una discesa che mi parve adatta. Ero solo, c’era tanto sole, dietro una nuvola spuntavano le cime del Gran Sasso. Mi diedi una spinta con i due bastoncini. Scoprii subito che quei due vecchi pezzi di legno erano assai duri da indirizzare nella direzione voluta. Riuscii a curvare quattro o cinque volte, poi la punta dello sci destro si ficcò dentro una buca e io mi ritrovai sbalzato in aria. Ricaddi sul manto nevoso e rimbalzai una o due volte. Per il trambusto, una lepre nascosta dietro un cespuglio guizzò fuori e scappò con quattro salti verso una casupola diroccata. “Al diavolo gli sci del Terzo Reich”, pensai mentre cercavo di togliermi la neve che mi era entrata tra collo e colletto. E tornai a casa con il fermo proposito di appenderli a una parete.

Marco Dell’Omo

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