Lo scialpinismo in Abruzzo raccontato da Alberto Paleri per Luca Mazzoleni
Alberto Paleari, noto scrittore e guida alpina di Gravellona Toce, ha introdotto con questo racconto il capitolo dedicato alla Majella nella prima edizione della guida La Montagna Incantata di Luca Mazzoleni. A oltre dieci anni di distanza, ci fa piacere rileggerlo con voi.
Una ruota di pane e un boccione di vino color delle ciliegie
Nell’inverno del 1995 il mio amico Giorgio, medico di Caramanico, mi invitò a passare qualche giorno sulla Maiella e il Gran Sasso.
Scendemmo dal nord in un gruppetto di sei o sette, io fino a Roma in treno, poi in macchina, insieme a un componente della spedizione che doveva recuperare a Fiumicino una lancia masai, confiscatagli per motivi di sicurezza al ritorno di un viaggio in Africa.
Arrivammo a Caramanico con gli sci e la lancia masai sul tetto.
Ero stato in Abruzzo a sciare solo un’altra volta, negli anni ’70, per le gare militari, come rappresentante della Brigata Alpina Taurinense nella gara di pattuglia: invece della lancia masai quella volta avevo sul tetto della camionetta la mitragliatrice pesante che avrei poi dovuto portare in spalla per tutta la gara.
La pattuglia era composta da tre alpini, un sottufficiale e un ufficiale: si facevano chilometri e chilometri, non ricordo quanti, metri e metri di dislivello, non ricordo quanti, con gli sci e le pelli di foca. Ogni tanto ci si fermava a sparare. Io ero uno dei tre alpini; quello che portava in spalla la mitragliatrice pesante. Quella mitragliatrice fu una vera maledizione che mi trascinai per un inverno intero lungo tutta la catena alpina e appenninica. Probabilmente ero il peggior tiratore dell’esercito italiano oppure la sagoma che dovevo colpire a ottanta metri aveva il dono dell’invulnerabilità, infatti non fu mai neppure scalfita da una mia pallottola.
Giorgio aveva due manie, una era lo scialpinismo, l’altra il pane: faceva chilometri per procurarsi certe ruote enormi che tagliavamo a fette con la punta della lancia masai e mangiavamo golosamente dopo averle sfregate con l’aglio e cosparse d’olio. A Caramanico ci installammo in un agriturismo ai piedi della Maiella. Cenai col piatto di pastasciutta più grande di tutta la mia vita.
Il primo giorno facemmo la Rava del Ferro, gran canalone abbastanza ripido, dove trovammo una bellissima neve invernale, farinosa, il secondo giorno salimmo al Monte Rapina, con un vento impetuoso e nuvoloni neri che correvano velocissimi. Ricordo la discesa in un gran bosco di faggi, sempre più fitto, un bosco medievale, come la valle in cui stavamo scendendo: la Rava Cupa, valle disseminata di eremi e monaci vestiti di sacco, digiunanti e penitenti.
E anche noi saremmo ancora là, digiunanti e penitenti, ad aggirarci nel bosco sempre più fitto, se Giorgio non avesse trovato un sentiero dapprima esile e poi sempre più grande, come un ruscello che diventa torrente e fiume e finalmente sbucò su una strada carrozzabile del ventesimo secolo.
Alla sera cenai col piatto di pastasciutta più buono di tutta la mia vita.
Il programma del terzo giorno prevedeva la traversata alta del Corno Grande, da Campo Imperatore ai Prati di Tivo. Ad Assergi pioveva che Dio la mandava, Giorgio disse: “qui non si fa nulla, proviamo al Sirente, là il tempo è migliore”.
E così ci trasferimmo al Sirente, lasciandoci indietro la pioggia. Attraversato un altro bosco di faggi ci trovammo sotto al Canale Maiori.
Contro ogni regola, della fisica e della meteorologia, la neve era caduta tutta la notte orizzontale. Macchè orizzontale! Addirittura dal basso verso l’alto era caduta! Tutte le rocce intorno al canale ne erano intonacate, anche gli strapiombi: meringhe, meringhe di neve e panna montata.
Non ne era venuta molta, al massimo quindici centimetri, ma era venuta da ogni direzione, anche i faggi, erano avvolti, ramo per ramo, da quindici centimetri di neve.
Il sole veniva a sprazzi ma l’aria restò gelida, sembrava di essere in Scozia, le nuvole continuavano a passare veloci e anche noi salimmo veloci, a stretti zig-zag, il pendio ripidissimo.
La cima è una sella e dall’altra parte si guarda giù verso un grande altopiano a riquadri. Ci fermammo giusto il tempo di togliere le pelli di foca che per il vento non riuscimmo a piegare bene: si appiccicavano alle gambe e ai guanti di lana, alla fine le buttammo nello zaino alla rinfusa.
Nel pomeriggio ripartimmo verso il nord, con gli sci e la lancia masai sul tetto della macchina, sul sedile posteriore riposavano una gran ruota di pane e un boccione di vino abruzzese color delle ciliegie.
Alberto Paleari
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