Dal Mistero delle tre vette al film Duemilanovecentododicimetri
Le parole di Luca Antonetti, giovane regista che nel suo “Duemilanovecentododicimetri” racconta il fascino simbolico delle vette del Gran Sasso che fecero da teatro all’impresa di Hans Riebeling e Hans Schmidt, ricostruita per la prima volta nel libro “Il mistero delle tre vette”.
“Girare un film-documentario in montagna non è un’impresa facile, ce ne siamo accorti sin da subito quando, già dal primo giorno, tutti i nostri piani di lavorazione, la tempistica delle riprese e la presunta semplicità della spedizione, si sono rivelati assolutamente errati. Il film nasce da una mia idea narrativa ben precisa ed è frutto delle attività didattiche del corso di Reportage Storico dì attualità del Centro Sperimentale di Cinematografia, scuola Nazionale di Cinema, sede Abruzzo, e rappresenta il saggio di diploma a compimento di un percorso di formazione.” Così Luca Antonetti ci racconta, ancora emozionato dal recentissimo successo ottenuto in sede di discussione di Laurea.
Il film prende spunto dalla storia narrata da Ilona Mesits e Francesco Burattini ne Il Mistero delle tre vette. Austriaci e tedeschi sul Gran Sasso dal 1875 al 1910. La sfida delle “Tre Vette” del Gran Sasso d’Italia sulla via aperta nel 1910 da Hans Riebeling e Hans Schmidt, ma mai portata a termine, è l’occasione per un padre e un figlio di oltrepassare la linea d’ombra.
“Nel girare il film ci siamo dovuti scontrare con la fatica intellettuale e fisica. Prima di partire l’impegno profuso con i docenti nella definizione del cosa raccontare, come, con quale “urgenza interiore”. Poi una volta iniziate le riprese la difficoltà nel portare nei nostri zaini tutta l’attrezzatura, oltre che cibo, acqua, tenda e sacco a pelo e per giunta, senza nessun aiuto di portatori, ci ha fatto rallentare notevolmente il piano di marcia, senza contare la fatica fisica di quando poi si doveva iniziare a girare. Fare uno o più chilometri di dislivello su sentieri impervi e scivolosi, tutti i giorni e diverse volte al giorno, metteva a dura prova la nostra resistenza e caparbietà. Eravamo in tre lassù, io Luca Antonetti alla regia, il fonico Adriano Alampi, l’operatore macchina Giovanni Sfarra, il location manager Enrico Antonetti e tutto gravava sulle nostre spalle. Questo è stato uno dei problemi più difficili da risolvere, perché ci obbligava a fare economia di mezzi tecnici da usare. Quindi, quello che ci chiedevamo ogni giorno, prima di iniziare a girare era sempre: “Di cosa non possiamo fare a meno oggi? Radiomicrofoni o Boom? O audio in camera?” Oppure: “Quanti obiettivi? Il cavalletto è necessario o se ne può fare a meno?” Un altro limite è stato quello dell’elettricità. Questo film, si può dire che è stato sempre girato in presa diretta, ovvero, buona la prima. Non si poteva mai ripetere nulla, sia per mantenere viva la veridicità delle situazioni vissute da padre e figlio, sia perché bivaccavamo anche per diversi giorni in tenda e non avendo elettricità a disposizione dovevamo fare economia di batterie.”
“Una grande sfida è stata anche quella di arrivare sulle cime di Corno Grande e Corno Piccolo. Chi ha la predisposizione all’arrampicata e non ha seri problemi di vertigini potrà benissimo, con l’aiuto di una guida alpina esperta, riuscire a salire in cima alla vetta; ma, tutt’altra cosa, è quella di fare delle riprese. Non a caso, questo è stato il primo film girato sulle vette del Gran Sasso. Anche con l’aiuto di una o di due guide alpine, noi trovavamo davvero difficoltà nel seguire padre e figlio nella loro avventura. Dovevamo calcolare ogni cosa, dovevamo trovare sempre il modo di aggirare continui ostacoli come l’altitudine, l’esposizione, le vertigini, o la stessa roccia che creava interferenze con i radiomicrofoni. Inoltre, dovevamo trovare un impianto di ripresa coerente che non intralciasse in nessun modo con il viaggio di Francesco e Matteo. Molto utile è stata la nostra “guida” al percorso da affrontare, mi riferisco al libro Il mistero delle tre vette; Il padre, grande appassionato di montagna, ha scelto proprio questo percorso come iniziazione per il figlio alla montagna. Il suo sogno più grande era quello di condividere la sua passione e se stesso con il figlio, una passione che il film riesce a trasmettere molto bene, con garbo e intimità.
Quando mi viene chiesto se questo è un film alpinistico, io rispondo di no. Per me, il film racconta il sogno di un padre, Francesco di Stefano, che vuole condividere la sua passione per la montagna e tutto se stesso con suo figlio, Matteo di Stefano. In definitiva, si potrebbe scrivere molto di questo lungo viaggio, durato quasi 3 mesi, ma non si riuscirebbe mai a trasmettere a parole tutto quello che abbiamo vissuto di questa grande esperienza, una delle più belle e drammatiche della mia vita. L’augurio è quello di essere riusciti, almeno in parte, a rendere queste sensazioni nel film.”
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