Fino al 6 marzo, presso l’Auditorium Parco della Musica di Roma, è possibile visitare l’emozionante mostra Walter Bonatti. Fotografie dai grandi spazi, un collage di straordinarie fotografie in grande formato che illustrano l’uomo Bonatti in tutte le sue forme: alpinista, esploratore ma soprattutto fotografo.
Con l’occasione vogliamo divulgare queste riflessioni di Stefano Ardito apparse nel gennaio 2009 su «Alp», pochi mesi prima che la stessa rivista, nata nel 1985, venisse chiusa dall’editore. Bonatti è venuto a mancare meno di due anni dopo.
Il debito di una generazione
Scuola media “Virgilio” di Roma, anno scolastico 1965-‘66. Sull’antologia di italiano, accanto a Carducci e Manzoni, compare qualche pagina di Walter Bonatti, tratta da Le mie montagne, in cui l’alpinista lombardo racconta la traversata a piedi dello Hielo. Qualcuno ha l’incarico di leggere ad alta voce. Poi, dal banco accanto al mio, si alza una mano: “professoressa, ma dov’è la Patagonia?”. “No, no, dev’essere un errore, macché Patagonia. Forse vuol dire la Palagonìa, la più bella villa di Palermo!”.
Ricordo quella frase come se fosse stata pronunciata ieri. Ricordo anche di essermi cucito la bocca – sapevo tutto, a casa avevo Le mie montagne e si comprava ogni settimana «Epoca» – perché anche a dodici anni è evidente che far fare una figura di m… a un professore non è una buona tattica da usare a scuola. Molto più tardi, da padre, ho scoperto negli insegnanti dei miei figli delle lacune altrettanto impressionanti.
L’ignoranza di quella professoressa siciliana non era solo una lacuna privata. In quegli anni, nella scuola e nelle famiglie italiane, si conosceva una geografia circoscritta. «Airone» e Geo&Geo erano di là da venire, e con loro L’isola dei famosi e i documentari di «National Geographic» e Sky. Imparavamo a memoria gli affluenti del Po e i luoghi delle Guerre d’Indipendenza e dei Mille. Dell’Africa, dell’Oceania e dell’Asia non ci facevano studiare quasi nulla.
I nostri padri ci raccontavano di Addis Abeba, di El Alamein e del Don, i nonni di Gorizia, del Piave e del Carso. Grazie ai libri (Salgari, Jack London e Kipling) e al cinema sapevamo qualcosa dell’India, dei Caraibi, del “grande Nord” e del West. Il K2 di Compagnoni e Lacedelli era un’icona nazionale. Chi andava in montagna con la famiglia o con il CAI aveva sentito nominare l’Everest.
I réportage di Walter Bonatti, in quella piccola Italia chiusa su sé stessa, hanno avuto l’effetto di una finestra finalmente aperta sul mondo. Accanto a Calatafimi e Custoza, a Trento e a Trieste e a qualche amba abissina teatro di lontani massacri sono entrati nelle nostre case il Ruwenzori e lo Yukon, il “polo del freddo” siberiano e Capo Horn, i pigmei delle foreste del Congo e i varani dell’isola indonesiana di Komodo.

In un paese come il nostro, spesso occupato a guardarsi l’ombelico, è stata una piccola, grande rivoluzione. Grazie a Walter e grazie a Nando Sampietro, il direttore di «Epoca» che gli ha dato praticamente carta bianca, i grandi spazi selvaggi della Terra sono entrati nelle case di centinaia di migliaia di italiani.
Era un fenomeno già avvenuto negli Stati Uniti, dove la ricerca della frontiera è da due secoli un mito nazionale e il «National Geographic» diffonde da decenni qualche milione di copie. Il mondo è di casa anche in Gran Bretagna, dove gli eroi dell’esplorazione – il capitano Cook negli oceani, Burton e Speke verso le sorgenti del Nilo, Scott e Shackleton in Antartide, Younghusband e John Hunt in Himalaya – sono sempre stati venerati come icone della patria e dell’Impero.
Niente del genere, invece, era mai accaduto in Italia. Un paese che pure, dai tempi di Marco Polo e Cristoforo Colombo a quelli del Duca degli Abruzzi, un contributo all’esplorazione del pianeta lo ha dato. Ad aprire le nostre scricchiolanti finestre, a farci vedere il mondo, è stato Walter Bonatti. Qualcosa del genere, nei medesimi anni, ha fatto in ambienti completamente diversi Folco Quilici, con le sue immagini dei mari del Sud e dei Caraibi arrivate nei cinema, in televisione e sulle riviste.
Cosa resta, oggi, del mondo esplorato da Bonatti? Walter, con i suoi toni drastici, ha scritto più volte che l’equipaggiamento di cui dispongono i viaggiatori di oggi, a iniziare dai telefoni satellitari e dai GPS, ha tolto gran parte del valore alle avventure compiute dopo di lui. Con tutto l’affetto che ho per Walter credo che questo non sia vero. Anche il Duca degli Abruzzi o Shackleton avrebbero potuto dire “non vale!” se avessero saputo degli aerei che hanno reso accessibili i luoghi più lontani della Terra, e dell’abbigliamento termico che negli anni Cinquanta ha reso finalmente possibile salire gli “ottomila”.
Viaggi come le traversate polari di Børge Ousland, l’Antartide di Reinhold Messner e Arved Fuchs, le circumnavigazioni di Mike Horn intorno al Circolo Polare Antartico e all’Equatore dimostrano che lo spazio per l’avventura esiste ancora. E nemmeno il più grande degli avventurieri (o degli alpinisti, ovviamente) può permettersi di dire alle generazioni future che non hanno più spazio per sognare e per mettersi in viaggio.
Per capire cosa resta del mondo esplorato e vissuto da Walter bisogna da un lato dare un’occhiata ai cataloghi dei tour-operator d’avventura, ormai presenti in tutti i paesi ricchi del pianeta, e in tutti quelli poveri che sono destinazioni di questi viaggi.
Molti dei luoghi percorsi e raccontati dall’alpinista di Bergamo nei suoi 101 viaggi esplorativi puntigliosamente elencati in un’appendice di Una vita così sono oggi regolarmente presenti nei cataloghi di queste agenzie specializzate, e spesso attrezzati con rifugi, piste di atterraggio e quant’altro.
Altre delle mète di Walter sono cambiate per motivi diversi, dall’afflusso continuo di migranti verso l’Amazzonia o il Sahara, alle terribili guerre che squassano ogni pochi anni le verdi colline del Ruanda e del Congo. La tigre di Sumatra, sulle tracce della quale Bonatti ha passato quaranta durissimi giorni, è stata cacciata fino a un passo dall’estinzione.
C’è un pezzo di eredità di Walter Bonatti, però, che è fatto di cuori, di cervelli, di passione. Chi era ragazzo o giovane negli anni in cui i testi e le immagini di Walter uscivano sulle pagine di Epoca ha oggi un’età compresa tra i quasi cinquanta e i sessanta e più. Per qualcuno di loro – e certamente per chi scrive – i réportage di Bonatti hanno indicato una strada.

Sarebbe interessante chiedere a molti colleghi giornalisti e fotografi – penso a Daniele Pellegrini, a Mario Verin, ad Aldo Pavan, ad Alberto Campanile, a Massimo Cappon, a Bruno Zanzottera, e poi a tanti altri – che hanno scelto di girare il mondo per lavoro con una macchina fotografica e un taccuino quanto ognuno di loro pensa di dovere a Walter.
La stessa domanda andrebbe fatta a chi fa lo stesso con una telecamera. E magari anche a “ragazzi” come Vittorio Kulczycki (Avventure nel Mondo), Alberto Addis (Kel 12), Piero Ravà (Spazi d’Avventura), Renato Moro (Focus) e altri ancora che hanno ideato e continuano a gestire i tour operator italiani specializzati in montagna e avventura. Per avere un quadro completo, dato che Bonatti è sempre stato un personaggio globale, bisognerebbe fare la stessa domanda a giornalisti, documentaristi e organizzatori di viaggi di molti altri paesi.
Per quello che mi riguarda non ho dubbi. La mia scelta di vivere raccontando storie di montagna, di avventura e natura alternando la penna, la macchina fotografica e la telecamera è figlia dei miei anni di alpinismo, della voglia di libertà respirata dal ’68 in poi, di tante altre cose. Ma anche, e per un bel pezzo, è figlia di quelle serate romane passate a sfogliare le pagine di «Epoca» e a sognare. Grazie Walter.